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Se il danno non patrimoniale non viene quantificato sulla scorta delle Tabelle del Tribunale di Milano è ammissibile il ricorso in Cassazione

Se il danno non patrimoniale non viene quantificato sulla scorta delle Tabelle del Tribunale di Milano è ammissibile il ricorso in Cassazione

PREMESSA. In tema di quantificazione del danno derivante da responsabilità civile da circolazione stradale, il legislatore ha ritenuto valido il c.d. “sistema delle tabelle”, introducendo, con D.Lgs. n. 209 del 2005, la tabella unica nazionale (i cui importi sono stati da ultimo aggiornati con D.M. 6 giugno 2013, in G.U. 14 giugno 2013, n. 138) per la liquidazione delle invalidità c.d. micropermanenti (fino a 9 punti).

Invece, per le lesioni c.d. macropermanenti (superiori a 9 punti) e per le ipotesi diverse da quelle oggetto del suindicato decreto legislativo (sinistro non derivante da circolazione stradale e danno da perdita parentale), i Giudici fanno di norma ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali, la cui utilizzazione ha trovato il benestare delle Sezioni Unite nei limiti in cui ciò comporti una adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando l’effettiva consistenza delle sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine “di pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).

IL CASO. Con ricorso in cassazione, i congiunti di una persona deceduta a causa di un sinistro stradale impugnavano una pronuncia della Corte d’Appello di Genova, lamentando che Essa aveva quantificato il danno morale sofferto sulla scorta delle Tabelle di Genova, anziché di quelle di Milano.

LA PRONUNCIA DELLA SUPREMA CORTE. Con sentenza n. 10263 del 13 febbraio – 20 maggio 2015 (Pres. Petti – Rel. Scarano),  la Corte di Cassazione, ritenendo il motivo fondato, accoglieva il ricorso.

La Suprema Corte, in particolare, osservava che “i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta e adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono essere idonei a consentire di addivenirsi ad una liquidazione congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti- sul territorio nazionale (v., da ultimo, Cass., 23/1/2014, n. 1361).In tema di liquidazione del danno l’equità si è infatti in giurisprudenza intesa nel significato di “adeguatezza” e di “proporzione”, assolvendo alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” (così Cass., 7/6/2011, n. 12408:”equità non vuoi dire arbitrio, perché quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è consustanziale l’idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità di trattamento”). I criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, in ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v., da ultimo, Cass., 23/1/2014, n. 1361). Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è altresì da escludersi che l’attività di quantificazione del danno sia di per sé soggetta a controllo in sede di legittimità, se non sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione, in presenza di totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 19/5/2010, n. 12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529), giacché il giudice è tenuto a dare conto dell’esercizio dei propri poteri discrezionali e, perché la liquidazione equitativa non risulti arbitraria, è necessario che fornisca l’indicazione, anche se sommariamente, delle ragioni del processo logico sul quale essa è fondata (cfr. Cass., 30/5/2002, n. 7896; Cass., 30/5/1995, n. 6061; Cass., 4/5/1989, n. 2074; Cass., 13/5/1983, n. 3273). A tale stregua, la quantificazione di un ammontare che si prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n.17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, depone nel senso di adozione di un sistema di quantificazione per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, legittimando i dubbi in ordine alla sua legittimità”.

Con ciò argomentando, la Suprema Corte ha poi osservato come sia ormai considerato efficiente il sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527) “pur se oggetto di forti critiche in dottrina, essendosi il sistema tabellare ritenuto lesivo della dignità umana, da epoca risalente il giudice, anche laddove non imposto dalla legge, fa ricorso all’ausilio di tabelle (v. Cass., 9/1/1998, n. 134)”.

La Suprema Corte ha altresì aggiunto che “tale sistema d’altro canto costituisce solo una modalità di calcolo tra le molteplici utilizzabili (per l’adozione, quanto al danno morale da reato, del criterio della odiosità della condotta lesiva, e quanto al c.d. danno esistenziale, del criterio al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare in conseguenza di esso, v. Cass., 19/5/2010, n. 12318). Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all’art. 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4 8 52), non già di derogarvi; e di addivenire ad una quantificazione del danno rispondente ad equità, nell’effettiva esplicazione di poteri discrezionali, e non già rispondenti ad arbitrio (quand’anche “equo”)”.

L’AFFERMAZIONE DELLE TABELLE DEL TRIBUNALE DI MILANO.

La Suprema Corte ha poi ritenuto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo una certa rilevanza nazionale “in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, questa Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402)”.

La Corte di Cassazione ha così avuto modi di precisare che “i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402)”.

IN CONCLUSIONE

La Corte di legittimità ha così ritenuto che la mancata quantificazione del danno sulla scorta delle Tabelle elaborate presso il foro di Milano in favore di altre configuri una violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.

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