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Linee Guida e Responsabilità Sanitaria dopo la Legge Balduzzi

Linee Guida e Responsabilità Sanitaria dopo la Legge Balduzzi

La Dott.ssa Fiammetta Trallo, consulente dello Studio Legale LDS per quanto riguarda l’ambito “Medicina, diritti del malato e del disabile”, propone un commento alle Linee Guida e Responsabilità Sanitaria a seguito dell’introduzione della Legge Balduzzi pubblicato sul Bollettino Notiziario dell’Ordine dei Medici di Bologna, N 1, gennaio 2015.


Linee Guida e Responsabilità Sanitaria dopo la Legge Balduzzi

Pubblicato sul Bollettino Notiziario dell’ODM di Bologna, N 1, gennaio 2015 (sintesi)

a cura del Dott. Vincenzo Castiglione, Magistrato

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Il ruolo delle linee-guida nella pratica medica, nonostante la funzione di raccomandazione non vincolante, merita alcune considerazioni.

L’efficacia e l’efficienza degli interventi in campo medico ha come presupposto la qualità dell’assistenza sanitaria e, contemporaneamente, la consapevolezza che le risorse sono limitate e come tali vanno ottimizzate. Pertanto l’organizzazione dei servizi sanitari nella pratica quotidiana deve identificare eventuali carenze e a suggerire di conseguenza possibili rimedi.

Il processo di accreditamento dei servizi sanitari ha rappresentato un’importante iniziativa in questa direzione: un determinato servizio per essere rimborsato dalla Regione di appartenenza deve soddisfare certi requisiti stabiliti per legge, essendo questa la garanzia che gli interventi da esso operati attingano a un livello minimo e imprescindibile di qualità.

La necessità di documentare il proprio operato per poter accedere all’accreditamento o ad altri protocolli di verifica della qualità (per es. ISO 9001), nonché l’impulso speculativo ed operativo data dalla cosiddetta evidence-based medicine, che dà ampio risalto ai dati basati su una congrua evidenza scientifica, hanno determinato la proliferazione all’interno delle unità operative e dei dipartimenti sanitari di protocolli, procedure e linee guida.

Per protocollo si intende uno strumento informativo che definisce un modello di comportamento professionale attraverso la descrizione di una successione di interventi, volti a raggiungere un determinato obiettivo. Le procedure sono strumenti di integrazione utili in situazioni complesse, che descrivono sequenze dettagliate e logiche di atti al fine di uniformarli e garantire così la qualità degli effetti risultanti. Le linee-guida consistono in raccomandazioni di comportamento clinico in grado di orientare il personale sanitario nella scelta delle modalità di intervento e di assistenza più appropriati in specifiche circostanze cliniche. Sono il risultato di una revisione sistematica e di una sintesi critica delle informazioni scientifiche disponibili per orientare la pratica clinica quotidiana.

Le linee-guida sono, quindi, raccomandazioni di comportamento clinico, redatte grazie ad aggiornati processi di rielaborazione della letteratura scientifica, utili sia ai sanitari ad adottare le modalità di intervento più appropriate che ai pazienti a meglio comprendere il percorso di cura.

La giurisprudenza da tempo ha avvertito la necessità di fare ordine fra le diverse e disomogenee decisioni, e il legislatore è intervenuto con la legge 8 novembre 2012, n. 189, con modificazioni del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, meglio conosciuto come decreto Balduzzi.

All’art. 3, comma 1, la legge n. 189/2012 stabilisce: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile (responsabilità extracontrattuale). Il giudice anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta di cui al primo periodo”.

In alcuni campi è del tutto legittimo redigere linee guida. Esse possono avere valenza in situazioni semplici e standardizzate, dove i fattori che entrano in gioco sono poco numerosi e ben circoscrivibili. Ma la medicina è una disciplina complessa e quasi mai ci sono due ammalati perfettamente uguali. Il compito del medico è anche quello di valutare ciò che nel caso particolare differisce dalla regola comune.

In sintonia con la giurisprudenza di Cassazione, fatte salve le eventuali indicazioni di legge o regolamenti tali da richiederne la scrupolosa applicazione, le indicazioni cliniche contenute in protocolli, procedure e linee guida non hanno un valore assolutamente vincolante per il medico (Cass. pen. sez. IV 2 marzo 2011, n. 8254; v. anche: Cass. IV sez. pen. 1 febbraio 2012, n. 4391).

Il medico può far valere quell’autonomia professionale che la legge gli riconosce e, quindi, dissentire. Meglio ancora: ove tali indicazioni siano errate, egli ha l’obbligo di dissentire.

E solo questa posizione garantisce la possibilità di impiegare prontamente le nuove conoscenze che si sviluppano rapidamente in campo scientifico, ben prima che queste siano sottoposte al vaglio che precede la loro inclusione in protocolli, procedure e linee guida.

La sentenza n. 16237/2013 afferma che “le linee guida non possono fornire indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità, sia per la libertà di cura che caratterizza l’attività del medico, sia perché talvolta la stesura delle stesse può essere influenzata da motivazioni legate al contenimento dei costi sanitari o perché sono obiettivamente controverse e non unanimemente condivise. Il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della sua volontà, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici”.

A questo punto, va posto in evidenza come sia più problematico il riferimento dell’art. 3 della legge n. 189/2012 alla colpa lieve nel contesto penale, in genere non nominata nelle decisioni giurisprudenziali come tale, ma non estranea alla realtà dei casi.

Tale sentenza riepiloga le decisioni della giurisprudenza penale, che sono passate da un atteggiamento di “benevolenza e comprensione” nei confronti dell’operato medico, che ha notevolmente esteso negli anni cinquanta e sessanta l’area di impunibilità degli esercenti la professione sanitaria, di fatto per colpa lieve, ad un successivo e più severo orientamento. Esclusa qualsiasi rilevanza in ambito penale dell’art. 2236 cod. civ. (“se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”) la colpa professionale era valutata sempre e comunque sulla base delle regole generali della colpa ai sensi dell’art. 43 cod. pen. Quindi, sia per colpa lieve che per colpa grave, la differenza concerneva solo l’entità della pena.

La Cassazione penale aveva già da tempo riconsiderato, con le sentenze del 21 giugno 2007, n.39592 e del 26 aprile 2011, n.16328, la speciale difficoltà, sganciandola dal riferimento all’art. 2236 codice civile, ma valorizzandone l’importanza ai fini del giudizio sulla colpa e introducendo al più convincente espressione di “specifica difficoltà”, chiaramente inerente le difficoltà relative al singolo caso, in cui possono insorgere non solo intrinseche difficoltà della prestazione sanitaria, specie in campo chirurgico, ma anche le condizioni di salute del paziente.

In tal senso, l’art. 3 della legge n. 189 del 2012, secondo le osservazioni contenute nella sentenza n. 16237 del 2013 (v. anche: Cass. pen. IV sez. n. 11493 del 2013) sembra inserirsi in un percorso già tracciato dalla giurisprudenza penale in tema di colpa medica, che testimonia un’importante apertura verso “la componente soggettiva” della colpa rispetto alla predominante valutazione della componente oggettiva, atta dalla prevedibilità e dall’evitabilità dell’evento in base al parametro dell’homo eiusdem condicionis et professionis (il che, nella professione medica, significa il sanitario dotato di conoscenze medie).

A questo punto, si pone il quesito se, alla luce dell’art. 3, comma 1, delle legge n. 189 del 2012, nel nostro ordinamento sia stata introdotta una parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie, allorquando essi abbiano seguito scrupolosamente le linee guida e le buone pratiche cliniche accreditate e possano, conseguentemente, invocare la colpa lieve come “favorevole parametro di valutazione della condotta professionale”.

Sembra di no. Non si può condannare il sanitario solo perché non ha ottemperato a determinati requisiti in assenza della dimostrazione che l’evento di reato è connesso con tale violazione e senza vagliare se le linee guida e le buone pratiche cliniche fossero sufficienti a prevenire ed evitare l’evento avverso, poi concretamente verificatosi: evento che, a sua volta, doveva essere prevedibile ed evitabile ex ante.

Né si può pensare che il legislatore abbia voluto introdurre le linee guida quali “regole cautelari”, sia perché ciò comporterebbe una deriva dei delitti di lesioni colpose (art. 590 c.p.) e di omicidio colposo (art. 589 c.p.) dall’illecito di evento a quello di pura condotta, sia perché la diversa genesi delle linee guida non consentirebbe di attribuire loro il ruolo di regole atte a prescrivere uno specifico comportamento per prevenire ed evitare un determinato evento.

In caso di inosservanza degli strumenti di codificazione del sapere medico scientificamente accreditati, l’affermazione di responsabilità andrà esclusa anche laddove, nell’interpretazione del contenuto delle linee guida, si registri la compresenza di valutazioni scientifiche e di valutazioni volte all’ottimizzazione delle risorse o, comunque, non possa del tutto azzerato, ma solo ragionevolmente contenuto, il rischio del verificarsi di eventi lesivi.

In questi casi il legislatore per bilanciare gli interessi contrapposti ha esplicitamente inteso privilegiare le esigenze di tassatività e certezza a quelle del soddisfacimento di istanze di tutela. Per cui la natura cautelare delle linee-guida è direttamente proporzionale al loro grado di precisione e al livello di conformazione che esse pretendono.

Le linee guida che mirano a bilanciare tra loro coefficienti di rischio e riduzione della spesa non hanno natura cautelare in senso stretto perché prendono in considerazione esigenze economiche che, in via di principio, sono antagoniste rispetto alla massima finalità preventiva delle cautele.

Conseguentemente, le linee guida, che contemperano la conformazione alle migliori cautele disponibili con esigenze di natura eterogenea, quali il contenimento dei costi, costituiscono una categoria molto variegata, tanto che a una loro valutazione in astratto deve preferirsi un esame in concreto, che nei settori in cui vengono in gioco i beni fondamentali della persona tenga conto del primato dell’efficienza cautelare sul risparmio economico.

In conclusione, il raggio operativo della disciplina di favore, introdotta dall’art. 3, comma 1, legge n. 189 del 2012, riguarda il solo profilo della colpa medica per imperizia, ossia quello che si riferisce al mancato rispetto delle legge dell’arte nella prestazione sanitaria (v. Cass. pen. n. 16237 del 2013).

Restano fuori dalla modifica normativa, rimanendo assoggettati agli ordinari criteri di valutazione della colpa con conseguente rilevanza della stessa colpa lieve, tutti i comportamenti sanitari contrassegnati da negligenza o da imprudenza, ossia da trascuratezza, disattenzione, omissione o ritardo, ovvero da superficialità e da c.d. temerarietà (la quale ricorre quando il medico si cimenti in prestazioni non rientranti nell’ambito del proprio settore di competenza specialistica), nonché le stesse condotte connotate da imperizia ogni volta in cui il sanitario non si sia attenuto a prescrizioni o indicazioni (linee guida e buone pratiche) della comunità scientifica.

COMMENTO DELLA SCRIVENTE – Le linee-guida sono uno strumento utile in particolari circostanze e, più precisamente, nelle situazioni più semplici.

Tuttavia possono costituire anche un pericolo, ovvero trasformare la medicina razionale applicata secondo scienza e coscienza in una semplice e piatta ripetizione e/o applicazione di ricette stilate da altri. Se usate con i paraocchi le linee-guida potrebbero indurre alcuni medici, e soprattutto i giovani colleghi, ad affrontare meno razionalmente i problemi clinici.

Pur non rinnegando l’utilità delle linee guida, personalmente ritengo che l’esperienza professionale è più preziosa e che la loro applicazione uniforme risulta particolarmente ardua nel caso concreto.

Al contrario, anche quando la linea guida sia criticabile per il suo scarso aggiornamento, il percorso argomentativo utilizzato dal medico che se ne sia consapevolmente discostato, deve comunque essere in grado di superare il vaglio di una valutazione medico-legale, di solito sempre aggiornata.

Da notare anche il loro controsenso: nate anche per contenere la spesa sanitaria, hanno di fatto contribuito ad aumentarla e amplificato il fenomeno della “medicina difensiva”. Ovvero, ogni qual volta una determinata valutazione medica è codificata in linee guida, l’iter di esami diagnostici viene prescritto spesso in toto, anche se non strettamente necessario nel caso in esame, solo e soltanto a titolo cautelativo futuro.

La stesura delle linee guida serve da norma concisa per guidare il comportamento di tutti i medici e, per quelli che lavorano in strutture pubbliche, servono anche a contenere la spesa sanitaria. Anche per i medici di medicina generale, oltrepassare le linee guida richiede a fine anno un rendiconto dell’operato.

Piacciono a molti, medici in primis, ma anche ai burocrati, ai fabbricanti di medicinali, agli amministratori, ai medici legali, periti di parte e controparte, ai Ministri e talvolta anche ad alcuni giudici.

Non piacciono a tutti coloro che possono subire o subiscono un danno di salute solo per mere esigenze economiche.

Dott.ssa Fiammetta Trallo

Specialista in Ginecologia ed Ostetricia

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