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Un caso di responsabilità medico chirurgica – Cass. Civ. N. 20547 del 30 settembre 2014

Un caso di responsabilità medico chirurgica – Cass. Civ. N. 20547 del 30 settembre 2014

Nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, l’attore danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che pur esistendo, esso non sia stato eziologicamente rilevante”.

IL CASO.  La questione sottoposta al vaglio della Cassazione riguardava un caso di responsabilità medica derivante da un intervento non necessario, cui conseguiva il decesso della paziente.

In conseguenza della morte, il marito e figli della paziente convenivano in giudizio l’Azienda Ospedaliera e il medico responsabile dell’intervento chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.

Gli attori deducevano, infatti, che la paziente era stata sottoposta a un esame endoscopico – non necessario e senza consenso informato da parte del sanitario – a seguito del quale si era verificata un’ampia lacerazione del duodeno che aveva reso necessario un successivo intervento di saturazione. Tuttavia, qualche giorno dopo l’intervento di suturazione, era sopravvenuta la morte della paziente.

Nella specie, dunque, ad avviso degli attori era configurabile una responsabilità professionale, da parte del medico e del personale sanitario dell’ente convenuto, dovuta ad imperizia.

I convenuti si costituivano in giudizio contestando la domanda e chiedendone il rigetto.

In particolare l’Azienda negava ogni responsabilità del personale sanitario in presenza di un quadro clinico già compromesso per le gravi patologie cardiache che affliggevano la paziente e non essendosi verificata, nel caso di specie, alcuna omissione di cure e di assistenza da parte dei propri dipendenti.

Il medico, invece, negava ogni sua responsabilità, mancando in ogni caso il nesso di causalità fra il suo comportamento e il decesso della paziente.

Purtroppo, tanto il primo grado di giudizio, quanto il secondo si concludevano con pronunce sfavorevoli ai danneggiati.

Nella specie la sentenza di merito, escludendo il nesso di causalità, rigettava la domanda risarcitoria avanzata dai familiari affermando – con richiamo alla CTU – l’identico grado di possibilità delle due cause che avrebbero determinato il decesso della paziente, individuate nella tromboembolia polmonare conseguente all’intervento chirurgico, ovvero nello scompenso cardiaco preesistente al ricovero e indipendente da esso, con conseguente stallo in tema di accertamento del nesso causale.

I ricorrenti proponevano, quindi, ricorso per Cassazione assumendo che: i) la Corte di merito avrebbe dovuto più esaustivamente verificare la correttezza del decorso post operatorio, ii) una volta dimostrato il nesso causale tra l’esecuzione dell’endocoscopia e la morte della paziente sarebbe del tutto evidente la rilevanza, nel caso di specie, della mancanza del consenso informato al fine del decesso della paziente; iii) la mancanza del consenso costituisce, di per sé ed a prescindere dall’errore del medico, illecito anche penalmente rilevante e comunque inadempimento del professionista; iv) nella specie non era stata eseguita l’autopsia nonostante il regolamento di polizia mortuaria preveda espressamente che la richiesta di autopsia per riscontro diagnostico “è dovuta quando il medico ha dubbi sulla causa della morte” e che, nel caso de quo, tale autopsia “avrebbe dovuto essere richiesta, posto che la diagnosi di morte formulata in base ai dati clinici era ed è insufficiente a chiarire i meccanismi fisiopatologici che hanno determinato il decesso e che di fatto sussistono ancora dubbi sulla causa di morte.”

Sul punto, infatti, i ricorrenti sottolineano le contraddizioni della sentenza impugnata laddove pur affermando come dubbia la causa della morte della paziente – da individuarsi nella tromboembolia polmonare o nello scompenso cardiaco – ritiene che giustamente il sanitario, che non dispose l’autopsia, “non ebbe dubbi sulle cause naturali della morte.”

LA PRONUNCIA. Con sentenza n. 20547 del 30 settembre 2014 la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha statuito sul caso sopra esposto ritenendo, come nel caso de quo, risulti accertata e pacifica la sussistenza di un inadempimento del medico in merito sia alla mancanza del consenso informato che alla lacerazione da esame endoscopico, che come noto determinò la necessità del successivo intervento. La Corte, inoltre, ha precisato che laddove la causa della morte della paziente fosse addebitabile ad una tromboembolia, questa fu generata in conseguenza dell’intervento.

Ciò detto, ad avviso della Suprema Corte gli inadempimenti e il nesso causale sopra richiamati sono proprio quelli allegati dagli attori.

Sul punto, i professionisti dello Studio legale LDS precisano infatti come “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore (medico e/o struttura sanitaria) dimostrare che tale inadempimento non vi sia stato, ovvero che, pur essendovi stato, lo stesso non sia stato eziologicamente rilevante.”

Ad avviso della Corte di Cassazione, infatti, nella fattispecie in esame la Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi in tema del riparto probatorio e la decisione non è supportata da argomentazioni sufficienti a tale riguardo, sicché la motivazione della sentenza impugnata risulta essere viziata sotto il profilo logico-giuridico.

Nella specie, infatti, l’ausiliare del giudice ha assegnato alle due cause tecnicamente ipotizzabili (tromboembolia polmonare e scompenso cardiaco acuto su basi ischemica e/o aritmica) un identico grado di possibilità con conseguente stallo, in tema di accertamento di nesso di causalità fra intervento e il decesso. Quanto detto, in ossequio al principio in tema di onere probatorio, va a carico del debitore che, nel caso in esame, non ha in alcun modo provato che l’inadempimento ascritto non abbia causato la morte della paziente.

La Corte poi, nel statuire sul caso in esame, ha osservato come in tale ottica assuma rilevanza sia la mancata esecuzione di un’autopsia, pur in presenza di un’assunta non certezza della causa della morte della paziente, che la non corretta tenuta della cartella clinica, come risulta agli atti. Nel far ciò la Suprema Corte ha richiamato l’ormai noto principio secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioè l’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.

Si segnala, infine, come in tema di consenso informato la Suprema Corte – nell’affrontare la questione sottoposta al suo vaglio – abbia più volte affermato che “la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (Cass. 16 maggio 2013, n. 11950; Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847).

IN CONCLUSIONE. La Corte di Cassazione – risultando nella fattispecie in esame provato l’inadempimento ascritto, che è astrattamente idoneo a determinare l’evento dannoso, in assenza di prova contraria, che doveva fornire il debitore – ha accolto il ricorso e cassato e rinviato la causa alla Corte di Appello.

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